Ma gli altri no
... Quella bruttezza perfetta, quella decadenza urbana, fa parte della ferita della vita. Mentre la bellezza è tutto il contrario, è ciò che guarisce.
Tra qualche giorno avrò la fortuna di essere ad Alghero, al Festival Dall’altra parte del mare, per presentare l’ultimo dei miei libri, La buona fortuna. Che, a proposito, è l’unico mio romanzo del quale so esattamente quando è nato. Spiegherò prima di tutto che non si scelgono le storie che si scrivono, ma sono le storie a sceglierci. Sono come sogni che si fanno a occhi aperti, immagini che si accendono all’improvviso nella tua testa, emozionandoti e costringendoti a scriverne. Così, il germe de La buona fortuna mi è venuto in mente il 29 aprile del 2017. Quel giorno viaggiavo in un treno ad alta velocità da Madrid a Málaga, nel sud della Spagna, per un incontro con un circolo di lettura, e mi successe quello che succede nel primo capitolo a Pablo, il mio protagonista. Stavo scrivendo sul mio portatile, come fa il personaggio, e sollevai la testa anch’io quando il treno si fermò tra due stazioni. E vidi lo stesso paesaggio atroce che vede lui, un quartiere industriale mezzo diroccato, e quel balcone orrendo proprio all’altezza dei binari, con la ringhiera arrugginita, i vetri incrinati e un cartello scritto a mano su un cartone che diceva «Vendesi». Era l’appartamento più brutto dell’Universo. Provai pena per il proprietario, perché pensai che non sarebbe mai riuscito a vendere una casa così spaventosa. Però allora, con la testa eccentrica che abbiamo noi romanzieri, che secondo gli esperti sono persone che non sono riuscite a maturare del tutto e continuano a giocare come bambini, mi dissi: e se ci fosse qualcuno che, vedendo quel cartello, scende alla stazione successiva, torna qui, compra l’appartamento, vi si rinchiude e scompare, non arrivando mai a destinazione? Quell’idea mi emozionò tanto che, quando arrivai al circolo di lettura, raccontai quello che avevo visto e dissi: so che questa idea è l’inizio di un romanzo. E, in effetti, La buona fortuna venne pubblicato in Spagna tre anni più tardi.
Quella bruttezza perfetta, quella decadenza urbana, fa parte della ferita della vita. Mentre la bellezza è tutto il contrario, è ciò che guarisce. Nel romanzo si dice che la bellezza aiuta a curare il dolore del mondo. Difatti, ci sono stati interventi in alcune baraccopoli aggressive e depresse (per esempio, in Colombia) dipingendo le case e abbellendo le strade, e la delinquenza e la violenza sono diminuite. Abbiamo bisogno della bellezza per sopravvivere.
La buona fortuna non è un thriller classico, sebbene ci siano poliziotti e delinquenti, ma è un romanzo di mistero esistenziale, perché ciò che ci cattura è l’enigma del comportamento dei personaggi. Perché Pablo scende da quel treno? Forse fugge da qualcosa o da qualcuno, o perfino da sé stesso… Tutti abbiamo provato qualche volta quella tentazione, no? Scappare da sé stessi, smettere di essere prigionieri della propria vita. Anche se la nostra vita ci piace. Perché veniamo al mondo con migliaia di desideri e di infiniti futuri, ma poi quel giardiniere folle che è il tempo pota le nostre possibilità e ci lascia intrappolati nel ramo spoglio della nostra esistenza, che è sempre più ridotta dei nostri sogni. Da lì la sensazione di prigionia. Però, insomma, a parte questo desiderio di essere un altro, aggiungerò che Pablo è un individuo ferito dal fulmine della catastrofe. Ha vissuto un’apocalissi personale e quando è sceso dal treno è sceso dalla propria vita e se n’è messo ai margini. E dovrà ricostruirsi, dovrà rialzarsi in piedi. Anticiperò una buona notizia: alla fine ci riuscirà.
E questo succede grazie alla coprotagonista, Raluca, che è una forza della natura. Vedrete, i romanzi te li raccontano i personaggi. L’autore maturo è quello che ha l’umiltà di lasciare che i suoi personaggi gli spieghino la storia, e fatto sta che Raluca si è mangiato questo libro. All’inizio aveva un ruolo minore, ma ha cominciato a crescere e a crescere e ha preso tutto il potere. Perché Raluca è una persona eccezionale piena di luce, capace di il-luminare anche gli abissi più tenebrosi. Possiede inestinguibili dosi di gioia, che è quella virtù animalesca che fa sì che tutte le cellule del tuo corpo si rallegrino di essere vive. La sua irruzione nel romanzo è stata così grande che gli ha fatto perfino cambiare titolo; prima si chiamava Il silenzio, però è arrivata lei e ha detto: assolutamente no, si chiamerà La buona fortuna. Il fatto è che Raluca ci spiega che la buona fortuna consiste nel raccontarsi la realtà in un altro modo. Nel cambiare narrazione. Non controlliamo nulla di quanto ci accade nella vita, siamo giocattoli del caso, però controlliamo il modo di rispondere a ciò che ci succe-de. Lì c’è sempre una scelta, per quanto piccola sia, e in quella scelta ci giochiamo il futuro.
C’è un delizioso aneddoto su Vladimir Nabokov, che è uno dei miei maestri. Nabokov tenne un corso al Wellesley College, negli Stati Uniti. Un giorno fissò un esame e la vigilia una delle sue alunne, una secchiona, lo cercò disperata per tutto il campus per chiedergli qualcosa relativo alla maledetta prova. Finalmente lo trovò che dava la caccia alle farfalle accanto al lago e gli fece la domanda, nervosissima. E lui rispose: «La vita è bella. La vita è triste. Questo è tutto ciò che c’è da sapere». Ecco, credo che in tutta la mia carriera di scrittrice ho cercato di dire questo nei miei libri, e di dirlo in un modo così essenziale, così distillato, così nudo e perfetto, così pieno di contenuto e di senso, da non aver più bisogno di aggiungere altro. E ho la sensazione che con La buona fortuna mi sia avvicinata più che mai a quella verità abissale e pura, alla traccia di ciò che è la vita, al cratere della realtà. Tanto, che sono quasi riuscita a toccare la lava di ciò che siamo.
Prima dell’inizio del libro, ho messo una citazione di Lorenzo de’ Medici, il gran signore rinascimentale di Firenze. Dice: «Chi vuol essere lieto sia, del doman non v’è certezza». Molto saggio. La pandemia ci ha insegnato chiaramente che del domani non c’è certezza. Perciò, impariamo a esercitare il muscolo dell’allegria. C’è un meme di quelli che circolano in rete che mi affascina. È una vignetta di Charlie Brown e Snoopy seduti di spalle su un lungomare, a contemplare l’orizzonte. Charlie Brown dice: «Un giorno morirò». E Snoopy risponde: «Sì, ma gli altri no». Traiamo il massimo partito dalla vita, amici. Spremiamo fino al più piccolo minuto del presente.
Rosa Montero (Traduzione di Bruno Arpaia)
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